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Spazio al Multimediale

City of God

Questa non è un'altra storia di gangsters


Di Alessia Lubrano

24 Aprile 2024


Tempo di lettura: 6 minuti
English version below

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Insicurezza, degrado, criminalità, miseria e violenza: questi sono i termini che dipingono con vividi colori la realtà delle favelas brasiliane. Nati nel XIX secolo per accogliere ex schiavi senza terra e senza dimora, nonché immigrati in cerca di un rifugio, oggi, questi insediamenti sono più di 13.000, disseminati attorno alle principali metropoli del Brasile (Canzian, 2021). Sebbene non siano riconosciute dallo Stato, le favelas rappresentano delle vere e proprie città nel cuore della città, ospitando, come riporta il Brazilian Institute of Geography and Statistics, oltre 11 milioni di persone (Nery & Britto, 2024).  Paradossalmente, come il luogo in cui risiedono, anche i favelados sono spesso invisibili agli occhi della società – molti di loro non possiedono nemmeno un documento di identità o un indirizzo. Eppure, all’interno di queste comunità, vigono codici di condotta rigidi e intransigenti: da una parte i cartelli della droga si disputano il controllo del territorio, dall’altra le forze dell’ordine non esitano a ricorrere a brutalità e arresti arbitrari.

 

Nel tentativo di narrare questi scenari, si rischia spesso di cadere in racconti eccessivamente crudi o, al contrario, eccessivamente romanzati. Tuttavia, esiste un’opera cinematografica che ha infranto ogni mia aspettativa: City of God, capolavoro del 2002 diretto da Fernando Meirelles. Tra le innumerevoli favelas brasiliane, Meirelles sceglie di esplorare Cidade de Deus, la più povera di Rio de Janeiro.

 

City of God ci immerge nel crudo e turbolento universo di Cidade de Deus, tra gli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘80. Attraverso lo sguardo di Rocket, un giovane con il sogno di diventare fotografo per evadere dalla spirale di violenza e miseria che avvolge il suo mondo, si dipana una narrazione avvincente. La sua storia si intreccia con quella di Li’l Dice, amico di infanzia che abbraccia il percorso oscuro del crimine per diventare il temuto signore della droga della favela. Mentre Li’l Dice espande il suo controllo sul narcotraffico eliminando le gang rivali, la comunità si trova lacerata da un clima di terrore e disperazione. Nel mezzo di questo caos, Rocket, traccia il suo percorso, cercando di allontanarsi dal crimine e ritrovare la speranza, in un mondo che sembra negarla.

 

Nonostante il suo trionfo internazionale, City of God non è immune alle critiche. Tra quelle più severe vi è la questione di quanto efficacemente Meirelles sia riuscito a rappresentare l’essenza della favela senza immergerla nel suo complesso contesto storico e politico. Alcuni critici hanno infatti etichettato il film come “un’opera storica priva di storia”, mettendo in discussione la sua autenticità e suggerendo che possa addirittura intensificare l’idea che le disuguaglianze sociali in Brasile siano insormontabili. Pur offrendo pochi accenni alle istituzioni governative, con rare eccezioni come la riflessione di Rocket sul fatto che “ai ricchi e potenti, i nostri problemi non interessano”, l’approccio di Meirelles mi è sembrato una scelta deliberata che denuncia l’inerzia politica. Attraverso l’assenza di riferimenti politici espliciti, il film enfatizza la negligenza di una classe dirigente riluttante a intraprendere azioni significative per il cambiamento. L’unico intervento istituzionale è quello della polizia, la cui figura si allontana notevolmente dall’immagine tradizionale di garante dell’ordine pubblico: nelle limitate occasioni in cui appaiono sullo schermo, i poliziotti indulgono in pratiche di corruzione, accettando tangenti, rubando e persino assassinando i residenti di Cidade de Deus.

 

Altri critici hanno accusato Meirelles di aver adottato un approccio troppo distaccato nei confronti dei personaggi, desensibilizzando il pubblico di fronte alle brutali realtà raffigurate e fallendo nel suscitare empatia verso le vittime. Tuttavia, credo che l’intenzione di Meirelles sia stata un’altra: come il titolo stesso suggerisce, il film dà priorità alla rappresentazione dello spazio geografico – Cidade de Deus – piuttosto che alle storie personali dei suoi abitanti. La violenza pervasiva della favela diventa così il vero fulcro narrativo, e i personaggi vengono delineati principalmente attraverso il loro rapporto con essa. Questa scelta di limitare il loro sviluppo psicologico non dovrebbe dunque essere vista come una lacuna, ma come una decisione consapevole ed efficace per focalizzare il racconto sulla natura stessa della violenza.

 

Il regista non si limita a dipingere un quadro di violenza continua; ne esplora anche le possibili alternative, per poi dimostrarne l’inadeguatezza, capovolgendo le aspettative dello spettatore in modo sorprendente. Una delle scene che mi ha colpita maggiormente illustra un gruppo di ragazzi impegnati in una partita di calcio, potenziale via di fuga per molti brasiliani che vivono in povertà. Tuttavia, questa luce di speranza viene brutalmente spenta quando un ragazzo spara al pallone, interrompendo il gioco e annientando simbolicamente, attraverso il fermo immagine della palla bucata, qualsiasi possibilità di evasione attraverso lo sport. Questo momento si lega strettamente all’allegoria presentata all’inizio del film, il “dilemma del pollo”, secondo cui “se corri ti catturano, e se rimani ti catturano ugualmente”,

 

A mio parere, nel tracciare il contrasto tra il Brasile come Nazione e il “brasile” come comunità emarginata, City of Godriesce a rivelare al pubblico che, quando lo Stato perde la sua legittimità, la favela stabilisce il suo sistema di giustizia. 

City of God

This is not another gangsters' story


By Alessia Lubrano 

April 24th, 2024

 

Reading time: 6 minutes

 

Insecurity, degradation, crime, misery and violence: these are the terms that vividly depict the reality of Brazilian favelas. Established in the 19th century to accommodate landless and homeless former slaves and immigrants seeking refuge, these urban settlements now surpass 13,000, scattered across Brazil’s major cities (Canzian, 2021). Despite not being officially recognized by the State, favelas are cities within cities, housing over 11 million people, as reported by the Brazilian Institute of Geography and Statistics (Nery & Britto, 2024). Paradoxically, like the place where they reside, favelados often remain invisible to the society, with many lacking even an identity card or an address. Nevertheless, within these communities, strict and inflexible codes of conduct prevail: drug cartels vie for territorial control, while law enforcement agencies do not shy away from employing brutality and arbitrary arrests.

 

In attempting to narrate these scenarios, one might veer into narratives that are either excessively harsh or, conversely, overly idealized. Yet, “City of God”, a 2002 film directed by Fernando Meirelles, surpassed all my expectations. Among the myriad of Brazilian favelas, Meirelles chooses to explore Cidade de Deus, the poorest in Rio de Janeiro.

 

City of God immerses us in the raw and turbulent universe of Cidade de Deus, spanning from the 1960s to the early 1980s. Through the eyes of Rocket, a young man with the dream of becoming a photographer to escape the spiral of violence and misery enveloping his world, a captivating narrative unfolds. His story intertwines with that of Li’l Dice, a childhood friend who embraces the dark path of crime to become the favela’s most feared drug lord. As Li’l Dice expands his control over the drug trade by eliminating rival gangs, the community is torn apart by terror. Amidst this chaos, Rocket charts his own path, striving for hope in a seemingly hopeless world.

 

Despite its international triumph, “City of God” is not immune to criticism. Among the harshest critics is the question of how effectively Meirelles manages to portray the essence of the favela without immersing it in its multifaceted historical and political context. Indeed, some critics have labeled the film as a “historical work entirely without history,” questioning its authenticity and suggesting that it may even intensify the idea that social inequalities in Brazil are insurmountable. While offering limited mentions of government institutions, with one of the few instances being Rocket’s observation that “for the rich and powerful, our problems didn’t matter,” Meirelles’ approach struck me as a deliberate choice that denounces political inertia. Through the absence of explicit political references, the film emphasizes the neglect of a political class reluctant to take meaningful action for change. The only institutional intervention is that of the police, whose figure departs considerably from the traditional image of a guarantor of law and order: in the limited occasions when they appear on screen, police officers indulge in corrupt practices, accepting bribes, stealing, and even murdering the residents of Cidade de Deus.

 

Other critics have accused Meirelles of taking a too detached approach to the characters, desensitizing the audience to the brutal realities depicted and failing to evoke empathy for the victims. However, I believe that Meirelles’ intention was different: as the title itself suggests, the film prioritizes the representation of the geographic space – Cidade de Deus – rather than the personal stories of its inhabitants. The pervasive violence of the favela thus becomes the real narrative focus, and the characters are delineated primarily through their relationship with it. This choice to limit their psychological development should therefore not be seen as a shortcoming, but as a deliberate and effective decision to focus the narrative on the nature of violence itself.

 

The director not only portrays the continuous violence but also explores its potential alternatives, only to demonstrate their inadequacy and subvert the audience’s expectations. One of the scenes that struck me the most illustrates a group of boys engaged in a football game, which serves as a potential escape for many Brazilians living in poverty. However, this glimmer of hope is brutally extinguished when a boy shoots the ball, interrupting the game and symbolically eliminating, through the freeze frame of the punctured ball, any possibility of escape through sport. This moment closely ties in with the allegory presented at the beginning of the film, the “chicken’s dilemma”, according to which “if you run away, they get you, and if you stay, they get you too”.

 

In my view, by exploring the disparities between Brazil as a Nation and “brazil” as a marginalized community, “City of God” reveals to the audience that, when the State lost its legitimacy, the favela established its own justice system.

Bibliografia

Canzian, F. (2021, October 14). In 10 Years, Number of Favelas Doubles in Brazil. Folha de S.Paulo. https://www1.folha.uol.com.br/internacional/en/business/2021/10/in-10-years-number-of-favelas-double...

 

Nery, C., & Britto, V. (2024, January 23). Favelas and Poor Urban Communities: IBGE changes name of subnormal agglomerates | News Agency. Agência de Notícias - IBGE. https://agenciadenoticias.ibge.gov.br/en/agencia-news/2184-news-agency/news/38973-favelas-and-poor-u...

Per una comprensione più approfondita della storia delle favelas, considera queste risorse

Green, J. N., & Skidmore, T. E. (2022). Brazil: Five Centuries of Change. Oxford University Press.

 

Bouclin S. (2018). Favela Law and City of God, 7 Annual Review of Interdisciplinary Justice Research 42, CanLIIDocs 11137, https://canlii.ca/t/t9js  

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Alessia Lubrano

Alessia, appassionata di diplomazia e di tutela dei diritti umani, ha orientato il suo percorso accademico e professionale verso lo studio delle organizzazioni internazionali, dei rapporti bilaterali e del diritto internazionale. Attualmente, frequenta il II anno del Master in International Relations presso l’Università LUISS, e sta ulteriormente completando la sua formazione attraverso un tirocinio presso l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. La sua esperienza è arricchita anche dalla partecipazione attiva a iniziative di volontariato, tra cui emerge il suo impegno nel Paris Peace Forum, che le ha permesso di immergersi nei meccanismi multilaterali, consolidando la sua conoscenza del campo della diplomazia.